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Leo Muscato: «In Prometeo padre degli uomini non c’è eroismo ma commozione»

Il regista. «La tragedia in un sito industriale abbandonato, simbolo della deriva della tecnica»

Di Ombretta Grasso |

Ci sono doni magici e pericolosi, meravigliosi e potenti, rivoluzionari e distruttivi. “Timeo Danaos et dona ferentes” avvertiva Virgilio. Dobbiamo temere la tecnologia anche quando porta doni? Se l’uso è malvagio tutto diventa maceria. Il dubbio vive in una fabbrica abbandonata, in disfacimento, corrosa dalla storia e dalla ruggine, in un paesaggio da archeologia industriale, in cui il regista Leo Muscato ambienta la tragedia “Prometeo incatenato” di Eschilo che oggi, alle 19, inaugura la 58° stagione delle Rappresentazioni classiche al Teatro greco di Siracusa. Prometeo è il titano creatore degli uomini ai quali dona la sapienza e il fuoco, rubato agli dei. Per questo Zeus lo condanna a un supplizio eterno nella lontana Scizia.

Regista a tutto tondo, noto per gli allestimenti d’opera alla Scala, Leo Muscato sceglie di incatenare Prometeo non a una rupe ma a una ciminiera. Nessun riferimento a paesaggi industriali a noi vicini, sottolinea. Di ciminiere in solitudine verso il cielo è, purtroppo, pieno il mondo. «Il testo parla di archetipi, non di quotidianità – spiega il regista – Volevo un luogo simbolico che subito, visivamente, indicasse la deriva dell’uso della tecnica. Un sito industriale in disfacimento, con un treno su un binario morto, di quelli che portavano ai campi di concentramento, e le Oceanine escono da una cisterna sporche di petrolio. Siamo alla fine del mondo». Prometeo, il ribelle che sfida Zeus, entra in scena in trascinato da Cratos e Bia, il potere e la violenza. «E’ la dittatura degli arroganti che arrivano al potere sbaragliando tutto quello che c’era prima», anticipa il regista.

Una ambientazione contemporanea – luci al neon che frizzano, carrelli, tubi da acciaieria – tra Chernobyl e “Blade Runner”, per una tragedia con la traduzione di Roberto Vecchioni che regala «un italiano contemporaneo e non quotidiano, in alcuni momenti poetico».

A perdersi nella foresta di ferro è proprio l’uomo, assente nella tragedia. «Ma il progresso dell’umanità è uno dei temi forti. Prometeo ha modellato le figurine umane con l’argilla e si è reso conto della loro fragilità. Come un padre amorevole ha insegnato loro tutto quello che poteva, tutte le tecniche che potessero aiutarli. Ruba per loro il fuoco, fondamentale per la sopravvivenza. Zeus però voleva distruggere l’umanità. Di fronte a questa minaccia mi sono chiesto: cosa saremmo capaci di fare per proteggere i nostri figli?». Tormenti continui sono inflitti al titano incatenato per l’eternità, «ma la sofferenza più grande è non poter parlare con gli esseri umani, non sapere più nulla di loro. Non c’è un atto di eroismo, ma commozione. Ha, la sensibilità del padre, non dell’eroe. Prometeo è un povero Cristo, incatenato, crocifisso».

Non solo maestro di tutte le “tecné”, ma preveggente che conosce il futuro, «lascia la libertà agli uomini e quello che succede è sotto gli occhi di tutti. A causa di alcuni, che hanno fondato l’economia mondiale sul proprio interesse personale, sull’accumulo di capitale, la tecnologia che doveva servire all’uomo per vivere meglio ha devastato la natura».

Una tragedia che ha 2500 anni e continuare a parlare al mondo di oggi. «Qualche giorno fa conclude il regista – in una prova completa, con musiche e costumi, seppur in un sala piccola, l’emozione, la commozione, sono state fortissime. Il testo vince. Non abbiamo cambiato una parola, non c’è una riscrittura. Però “incatenare” lo spettatore a quel paesaggio visivo fa sì che venga letto in un modo diverso. Ed è questa la sfida: far dialogare quel testo con un immaginario contemporaneo. Incatenare lo spettatore».COPYRIGHT LASICILIA.IT © RIPRODUZIONE RISERVATA

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